Ascoltare il proprio dolore è difficile, lo è per tutti, o quasi. Capirlo fino in fondo lo è ancora di più, soprattutto quando diventa assordante.
Avendo avuto un carattere riflessivo fin da giovane, ho imparato ad aprirmi a questo ascolto e, tra alti e bassi, ho cercato di far emergere il dolore, perché era l’unico modo per non esserne sopraffatta.
Una tematica scottante questa, sopratutto se penso ai miei alunni, che oggi fanno molta fatica a dare un nome alle emozioni in generale e a gestire la tristezza in particolare.
Ho sempre immaginato il dolore come un pezzo di argilla grezza, che aspetta di essere plasmato. Per quando difficile, di volta in volta, ho cercato di dargli una forma che riflettesse al meglio ciò che stavo vivendo in quel preciso momento della mia vita.
Ma a un certo punto può succedere che l’argilla si secchi e che le idee e le parole si esauriscano, non sapendo più da dove cominciare per esprimere ciò di cui hai bisogno per sentirti davvero te stesso.
Così è capitato a me: il mio meccanismo di autodifesa, che tante volte si era dovuto mettere in moto, era ormai logoro; sarebbe bastato poco per farlo ripartire, ma sapevo non essere quello il momento giusto perché necessitavo di altri insegnamenti dalla vita.
In questo anno, in cui ricorrono dieci dalla morte di mia sorella, inizia il secondo da quella di mamma e tantissimi da quella di papà… beh, le cose sono diverse.
Ho acquisito una nuova lucidità di visione che non mi ha mai abbandonata in questo anno, solo a tratti è stata offuscata dal panico delle burocrazia “post mortem”.
Così mi sono immersa completamente nella vita, fino al punto di arrivare a luglio esausta.
C’era qualcosa che mi attendeva, ma non ne ero consapevole. Infatti, ad appena un mese di distanza dalla morte di mia madre, è arrivata la notizia inaspettata della mia immissione in ruolo. Ormai non potevo più dirglielo!
Colta dal panico per mille ragioni, ho pensato di rifiutare, pur sapendo che non potevo e non volevo farlo. In quei momenti, però, nulla sembrava avere senso.
Alla fine ho affrontato l’anno come una sfida: mi sono concentrata solo sui doveri e sul lavoro, perchè sentivo di averne bisogno e volevo anche esplorare sensazioni che non avevo mai vissuto prima.
Il momento di riflessione è arrivato a luglio, dopo aver superato l’anno di prova, vissuto come desideravo e sentivo di meritare, perché per me era realmente un’opportunità di scoperta personale e professionale sotto la guida della mia dirigente. A quel punto, ho deciso di riaprire quella piccola stanza e iniziare a lavorare su quell’argilla ormai secca.
La mia non è stata una ripartenza, perchè il flusso perpetuo della vita non si può davvero fermare. È stata piuttosto trasformazione in atto: c’è chi affronta la paura di un nuovo lavoro, lasciando le certezze del passato; c’è chi dopo la sofferenza per un amore finito, si apre al nuovo; c’è chi riscopre le proprie passioni; chi cerca un nuovo equilibrio familiare, o chi si trova in una città tutta da esplorare. Ci sono momenti di grinta e altri di sconforto.
Oggi affronto le mie giornate con delle liste di priorità, proprio come faccio in classe per aiutare gli alunni a superare le loro paure e fragilità.
A volte queste liste diventano lunghissime e confuse, tanto da doverle riscrivere per capire davvero quali passi seguire per raggiungere l’obiettivo; ma l’importante, sia per me che per loro, è mantenere la costanza e non scoraggiarsi.
La consapevolezza si acquisisce gradualmente, e se un giorno si decide di saltare il proprio programma, non è un problema: significa solo che c’erano altre necessità. Il giorno dopo si riparte con più grinta e attenzione, facendo in modo che la procrastinazione non diventi un’abitudine.
Negli ultimi giorni, pensando a cosa scrivere per celebrare il compleanno di mia sorella e proseguire questo diario che porto avanti da ormai dieci anni, mi sono ritrovata a riflettere sulle parole di Tiziano Terzani in Anam. Il senza nome.
Lui si chiedeva: «Di cosa abbiamo realmente bisogno?». La risposta: «Abbiamo bisogno di accontentarci!».
Desiderare e aspirare a ciò che ci rende felici è naturale, ma non dobbiamo diventare prigionieri dei nostri desideri. Se lo facciamo, rischiamo di non assaporare il presente e di non avere la lucidità necessaria per affrontare e superare i nostri limiti.
Non si può tornare indietro. Le persone care non sono più fisicamente con noi, ma sono sempre presenti… A dieci anni dalla tua scomparsa, dolce sister, alzo un brindisi per te nel giorno del tuo compleanno, e per Voi, che mi avete insegnato tanto sull’amore e sulla bellezza del mondo. Spero di trasmettere lo stesso a chi mi circonda ogni giorno, anche solo con una parola gentile o un semplice gesto.
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