Cos’è cambiato dopo otto anni dalla scomparsa di Mari?
È complesso dirlo, sopratutto in questo periodo della mia vita.
Cercare le esatte parole, gli intervalli e rimettere in ordine i pensieri in modo sensato è molto difficile.
La scrittura non fluisce da qualche tempo! È un dato di fatto e, quando questo accade, credo che l’unica soluzione possibile sia il silenzio, così da dare spazio alla comprensione.
Troppa acqua è passata sotto questi ponti e – come qualcuno di importante ha già teorizzato con il suo celebre Pánta rheî -, tutto scorre.
Fin qua non fa una piega; in che modo tutto sia mutato, ancora non si comprende bene, nonostante il disegno si stia definendo.
Ultimamente mi è capitato di studiare il Compianto sul Cristo morto di Lorenzo Lotto, conservato a Recanati.
Un’opera bellissima in cui il Cristo livido ed esanime campeggia in primo piano; esso è sostenuto da Giuseppe di Arimatea dagli occhi inumiditi dal pianto, dall’Angelo con lo sguardo sgomento, mentre Maria Maddalena porge il suo ultimo saluto al Redentore e, infine, Maria, la figura che più di tutte ha destato il mio interesse.
Di lei vediamo pochissimo perché avvolta nel pesante manto blu dietro cui nasconde il proprio dolore. Gli unici dettagli visibili sono lo zigomo e la fronte aggrottata, a sottolineare lo stato d’animo dilaniato alla vista del figlio morto.
Dettagli che hanno fatto riemergere in me il ricordo di alcuni momenti vissuti il 12 febbraio 2014, giorno in cui diedi l’ultimo bacio a mia sorella.
Nitida è l’immagine di mia madre che, dignitosa, ma con il cuore in frantumi, accolse amici, parenti e conoscenti nei giorni del funerale di Mari.
Lei soffriva immensamente e nonostante questo, non ha mai mostrato (pubblicamente) il minimo segno di cedimento.
Ricordo che quel giorno mi disse di non lasciarmi sopraffare dal fragore confuso e dalla disperazione, perché la parte più difficile sarebbe arrivata dopo, quando saremmo rimaste sole ad ascoltare l’assordante silenzio che avrebbe invaso la nostra quotidianità.
Lei, che già conosceva così profondamente il dolore, con quelle parole aveva cercato di proteggermi.
Io, ignara, non potevo immaginare che il viaggio si sarebbe rivelato così devastante.
Susan Sontag, in Malattia come metafora, scrive: «Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese».
Proprio come aveva predetto mia madre – e già dotata del mio “passaporto meno buono” – l’assordante Silenzio suonò puntuale alla nostra porta e da quel momento, mano per la mano, iniziammo il nostro cammino in terre arse e desolate, in cui, nel corso di questi anni, ho provato sensazioni mutevoli e contrastanti.
Nella mia lunga peregrinazione emozionale, alla ricerca di qualcuno diverso da me, che potesse mettere fine all’insopportabile Nulla, a un certo punto ho deciso di non affidarmi più a nessuno, di crescere e di fare affidamento solo sulle mie sensazioni, imparando ad ascoltare ciò che prima non riuscivo a udire.
Non sopportavo il Silenzio che continuava a ingombrare la mia mente con rumori assordanti e senza uno spartito da seguire.
Vagare, lasciarsi trasportare, fidarsi, annullarsi… non sentirsi. Chiaramente questa non era la strada da percorrere.
Il Silenzio ha sembianze mutevoli, sta a noi saper godere del suo aspetto migliore, scrutandolo dalla giusta prospettiva.
D’altro canto il silenzio sul pentagramma è rappresentato proprio con una “pausa” e, come afferma il fisico Gianni Zanarini, «nella musica come nel linguaggio, il silenzio è condizione necessaria per l’ascolto. È una pausa di silenzio quella che separa una parola dall’altra, una frase dall’altra, o anche una nota dall’altra, un motivo musicale dall’altro».
Il silenzio è un passaggio necessario affinché la parola o la musica possano esistere, diventando un’esperienza totalizzante se ci si ferma ad ascoltarlo.
Battiti di cuore, gesti, il proprio mutevole respiro… quello che credevo essere assordante silenzio, nella solitudine dei miei pensieri, ha manifestato la sua più vibrante Essenza e Presenza.
Dal nulla è emerso un suono, un battito vitale; seguito a breve distanza da un gong, il cui suono ha echeggiato nella radura vulcanica invadendo l’Essere.
Oggi non cerco più di sciogliere i fili, alla fine la musica risuona nell’anfiteatro, nonostante questi siano intricati e disordinati… proprio come avviene nel live da Pompei dei Pink Floyd.
Se dovessi descrivere ciò che io chiamo l’armonia del Silenzio, la sensazione che più si avvicina a tale stato, è proprio Echoes… su queste note proseguo il mio viaggio in terre sconosciute, circonfusa dalla luce delle persone che mi stanno accanto e che per primi hanno compreso il Silenzio e talvolta il mio bisogno di Solitudine.
Otto anni fa – in questi stessi giorni – baciavo la mano fredda di mia sorella e il mio Essere si annullava.
Oggi invece chiudo gli occhi e resto in contemplazione di un ancestrale melodia, la quale, sempre più, spero mi possa avvicinare a quella stessa compostezza e bellezza, che vedo nella persona che più amo.
Testo e vita di @Claudia Stritof.
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