Lei aveva 27 anni, oggi sarebbero stati 35, mentre io vado per i 34.
Trentaquattro anni?! Ormai iniziano a essere tantini e percepisco il cambiamento in me e nei miei amici; cambiano le nostre abitudini e i nostri progetti di vita.
Addio alla meravigliosa spensieratezza della fanciullezza, quella che faceva credere invincibile e che rendeva la mente leggera. Non c’erano programmi, si assaporava la bellezza del momento, una chitarra intorno al falò, il treno dal sud per andare al concerto del Primo Maggio, la partita di calcetto a Camocelli e i viaggi in littorina.
Il passato è denso di ricordi e ogni tanto mi chiedo come sarebbe stata la mia vita con Mari accanto. Dove sarei stata oggi? Cosa avrei fatto? Sarei tornata giù o avrei abitato altrove? Avrei avuto una casa tutta mia o avrei continuato a fare i mie mille traslochi?
E Lei? Lei sarebbe diventata Notaio? Avrebbe avuto dei figli e quindi io dei nipotini? Dove avrebbe vissuto? La nostra crociera sui fiordi l’avremmo fatta?
Domande. Tante domande, domande che non potranno mai avere una risposta e che ogni tanto si affastellano nella mia mente e mi fanno riflettere sulle decisioni prese in passato. La sua morte è stato il mio spartiacque, perché è stato quello l’esatto momento in cui la mia vita è cambiata.
Sono stata in balia di venti e burrasche. Ho tenuto il timone saldamente tra le mani, altre volte mi sono persa, altre ancora ritrovata. Ho sorriso, ho pianto, mi sono annoiata, mi sono divertita.
La vita è un percorso in continuo divenire, ci porta a mutare perennemente e se esattamente un anno fa cercavo con tutta me stessa un periodo di pausa e di silenzio dal rumore esterno, quest’anno invece comprendo di non essermi mai concessa quel tempo tanto agognato.
Una meravigliosa parola “tempo” e ancor di più lo è desiderare che questo si possa fermare come per magia su un dato momento vissuto per assaporare quel che si sta esperendo.
Quante volte durante la nostra vita accade questo? Raramente e me ne accorgo ora.
Non è facile comprendere gli avvenimenti che ci accadono giornalmente, perché quando si provano sensazioni forti, quali il dolore o la felicità, si rimane accecati, inebriati, storditi, sottomessi.
Dal giorno in cui Lei è morta ho cercato disperatamente di dare un nome al dolore e ai sentimenti che provavo. Li affrontavo e li sondavo con la riflessione, la scrittura e la fotografia, ma solo oggi mi accorgo di avere dimenticato la cosa più importante: imparare a dare un nome a tutte le mie emozioni, comprese quelle positive, per affrontare con sicurezza e maturità il mio futuro.
Scrive Alda Merini: “ieri ho sofferto il dolore”. Una poesia struggente, come solo lei sa fare. Intrisa di maturità sentimentale e di una delicatezza dilaniante che attraversa il lettore e afferra il cuore stringendolo in una morsa.
Questo fa un animo sensibile, consapevole del proprio Essere e del proprio vissuto: affronta le proprie emozione e le comprende.
Da un nome e un’identità al proprio Essere.
Tempo fa in un articolo di una psicologa, leggevo: “l’atto di ‘dare un nome’ spesso segna l’inizio di una vita […] Chiedersi come si chiama quello che ho dentro è un passaggio fondamentale nell’acquisizione di una vera scoperta di noi, che non finisce mai”.
È difficile raggiungere l’intelligenza emotiva, ma va fatto, perché altrimenti si rischia di avere rimpianti e di non comprendere la propria realtà.
Lo scritto continua: “attraverso un importante ‘filo conduttore’, quello delle emozioni, dei vissuti e dei ricordi, possiamo comprendere meglio i nostri desideri, le nostre aspettative, le nostre reazioni: sono tutte importanti, da ascoltare con attenzione, da immaginare nel loro dispiegarsi ed attuarsi, fino alle estreme conseguenze. È come immaginarsi il film di quello che vorremmo, nei dettagli, aiuta a conoscersi, a precisarsi meglio gli obiettivi di vita, a favorirne la realizzazione, a modificarli evitando di inseguire effimeri, tanto deludenti, falsi obiettivi”.
Dare un nome a ciò che fino a questo momento non sapevamo definire segna l’inizio del viaggio.
Mi sono sempre mossa a velocità differenti, anche schizofreniche, e se nello scritto dell’anno scorso chiedevo a me stessa una pausa, oggi credo che, a un anno di distanza, io non abbia voglia di fermarmi.
Affrontare le paure, ascoltare il silenzio, elogiarlo, comprendere la fitta trama che si sta dipanando è ciò che credo essere necessario.
È impossibile dimenticare se stessi per cercare qualcosa che non si è, ma si può aggiustare il tiro e allora quel romanticismo pervasivo, quella smodata voglia di sognare e di sorprendere, con il giusto nome e consapevolezza, assumerebbe anche una solida e concreta forma.
Questa estate, dopo 7 anni dalla morte di Mari, ho deciso di sostituire il quaderno rosa all’interno della cappella dove è sepolta. Non avevo mai avuto il coraggio di leggerlo, credevo fosse irrispettoso farlo, perché, come me, molte persone in questi anni hanno scritto frasi d’amore e di speranza a lei dedicati. Un dialogo silenzioso e amorevole.
Dopo aver passato un intero giorno a guardarlo, alla fine ho deciso di lasciarmi traghettare dal fiume di parole e ho camminato in punta di piedi in tante vite differenti, compresa la mia.
C’è chi è stato male, ma ha avuto il coraggio di lottare contro una malattia devastante; chi ha voluto cambiare vita e Le chiedeva il coraggio per mollare tutto; c’è chi in sette anni ha realizzato il sogno di una vita.
Ho letto preghiere, ho provato speranza, ho sentito determinazione e vissuto ricordi, anche quelli della nostra infanzia. Ho letto messaggi indirizzati a me e parole d’amore dedicate a mia madre.
Parole in movimento, parole sature e consapevoli…
Merini chiudeva la sua poesia con un interrogativo: “perché l’immobilità mi fa terrore?”.
Un brindisi a te mia dolce sister nel giorno del tuo trentacinquesimo compleanno.
Sempre nel mio cuore.
Testo e vita di ©Claudia Stritof
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