Io ero la piccola, Lei la grande. Ci passavamo diciassette mesi di differenza e credevo che non mi avrebbe mai lasciata. Ho avuto una sorella ma, a soli 26 anni, mi è stata strappata via da un mostro famelico.
Se dovessi scrivere un romanzo sulla nostra storia, questo sarebbe l’inizio.
Scriverne non è mai stato facile, nonostante io l’abbia fatto regolarmente, a partire dal 12 marzo di quell’anno maledetto.
Il motivo? Trovare una via di uscita al dolore che mi stava annientando, prima a causa della malattia, poi per la sua assenza.
Ernest Hemingway ha scritto: “non c’è nulla di difficile nella scrittura. Tutto ciò che fai è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare”.
Così è! Chi parla di sé, qualunque sia il mezzo di scrittura, “sanguina”!
In questi giorni nel mio personale “museo della memoria” ha fatto la sua comparsa il fotografo Settimio Benedusi con il progetto ES_SENZA del 2015.
Un lavoro che inizia con un autoritratto realizzato dal fotografo poco prima di andare alla messa commemorativa in suffragio del padre, morto otto anni prima.
Ritrattosi insieme alla madre Renza, i due soggetti, metaforicamente “nudi” di fronte ai nostri occhi, affrontano l’assenza; una dualità, questa tra presenza/assenza, che viene vissuta costantemente da coloro che hanno perso la persona amata.
Evidentemente sentita anche dallo stesso Benedusi, la cui fotografia, nata da un’esigenza di espressione personale, si è tradotta in una solida riflessione concettuale.
Quando qualcuno ci lascia si è ossessionati dalle sue fotografie e Benedusi non è da meno, ma lui non si limita a osservare le immagini con nostalgia o con photos, direbbero i greci, ma le estrapola dall’album di famiglia e le modifica con photoshop, cancellando la figura del padre, prefigurando il luttuoso evento e la solitudine da esso derivata.
Diversi tipi di “scrittura” ci portano a un unico fine: sondare il proprio passato e le proprie emozioni; guardarle in faccia senza aver paura. Sanguinare e reagire.
Il mio cammino è iniziato sette anni fa e dopo il primo scritto, letto in chiesa dalla voce spezzata di mia madre, sprofondai nel divano di casa attanagliando la mente con mille domande.
A un anno di distanza confesso di aver imparato a pronunciare la parola morte; una piccola bugia detta a me stessa probabilmente per sopravvivere alla perdita.
Rivivevo i nostri ricordi d’infanzia e pian piano riaffioravano quelli felici, dimenticando progressivamente la malattia.
Nel giorno del suo 31° compleanno, capivo di essermi smarrita nuovamente e mi appellavo alla sua sicurezza per ritrovare la via da percorrere.
Cercare Lei insistentemente mi ha portata a smarrirmi. Non si può essere un’altra persona, men che meno cancellare il passato, ma questo lo si può riscrivere; il che non vuol dire falsarlo, ma semplicemente cercare di comprenderne lo svolgimento, stando attenti a non rifugiarsi in esso troppo a lungo, perché si rischia di cadere in un oblio profondo, come è accaduto a me.
Che non fosse ancora tutto lineare nel mio percorso, risulta chiaro dallo scritto quattro anni senza te…, quando riemergeva in me la paura della malattia e cinque anni dopo mi sentivo impaurita come una moleca senza guscio.
Probabilmente Freud avrebbe definito questo ripresentarsi degli eventi traumatici una “coazione a ripetere” che mi ha impedito di prendere coscienza con trasparenza della situazione e che evidentemente mi destabilizzava.
Così, sei anni dopo, facevo di nuovo i conti con la malattia, motivo che mi ha convinta a pubblicare le uniche fotografie superstiti del nostro ultimo anno insieme.
L’energia liberata in tutti questi anni mi aveva stimolata e desideravo mettere ordine al caos; un lavoro che si è svolto in modo lento e graduale, con tanto dispendio di energia fisica e mentale.
Così l’anno scorso, di fronte al tappeto blue di Yves Klein al MAMAC di Nizza, capivo che era ormai giunto il tempo di iniziare a rileggere ciò che avevo scritto.
In questi anni più scrivevo e più “sanguinavo”, ma al tempo stesso più cercavo di rielaborare verbalmente e grammaticalmente le frasi sconnesse e troppo viscerali, più la comprensione giungeva, trovando quel distacco dall’emotività totalizzante e autodistruttiva. Un distacco tra l’Io narrante e l’Io vivente che altro non è che un modo per sopravvivere ai propri pensieri con lucidità, cercando di far cadere ogni maschera e illusione.
Nell’ultimo anno credo di aver preso coscienza sulla meta da raggiungere, dico “credo” perché ancora mi trovo nelle vie secondarie alla ricerca della via maestra da percorrere con sicurezza. Sento che non è ancora il momento di scrivere la parola fine al racconto del mio passato; ma ci siamo quasi.
Prima o poi, arriverà il momento in cui godere a piene mani dei piccoli momenti di felicità. Forse è una vana speranza, forse mi sentirò per sempre a metà. Queste sono altre domande destinate a restare senza risposta… ma il fatto che ormai io non me le ponga più con tanta insistenza, qualcosa vorrà dire.
Persa tra mille ricordi, parole e fotografie, ecco che anche oggi mi sono ritrovata nel mio Museo, rifugio e salvezza dell’anima.
Mari, sempre nel mio cuore: mia carezza, mia forza, mio coraggio. Come ogni anno, stasera brinderò a te mia dolce sister.
Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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