Eccoci giunti al sesto anno… il sesto della mia vita senza Mari.
Sei anni dal giorno in cui quel maledetto mostro l’ha portata via da noi. Io avevo 26 anni, lei 27… e tra qualche giorno ne compirò 32. Strana questa esistenza!
Quest’anno ho deciso di parlare di lei attraverso una delle mie passioni più grandi: la fotografia, poiché, ancor oggi, sono tante le persone che mi chiedono perché ho smesso di fotografare.
Alla domanda, non è mai seguita una risposta. Un giorno della mia vita ho mollato… No, non è questa la verità.
Il mio aver riposto la reflex nell’armadio è stata una decisione nata in seguito a un progetto, che all’inizio non si configurava come tale ma che mio malgrado lo è diventato.
All’epoca scattavo giornalmente. Mi truccavo, impersonavo altri soggetti, guardavo negli occhi le persone e chiedevo loro di poterle fotografare; l’unico momento in cui non volevo scattare era quando “andava fatto”: feste, cene, compleanni. La responsabilità, in quel caso, passava a mia sorella.
Un giorno ricevetti una telefonata: «devi tornare a casa, Mari sta male. Stiamo andando all’ospedale di Reggio Calabria».
Impaurita e senza altre informazioni, prendo la macchina fotografa e una borsa con due vestiti, mi fiondo sul primo treno e inizio la mia discesa verso Rosarno.
Non avendo la giusta concentrazione per leggere e né la voglia di riposare, passavo il tempo guardando dal finestrino, ascoltando musica e ogni tanto passeggiavo nei vagoni claustrofobici di Trenitalia.
Ferma, davanti a una delle porte di uscita, scattai. Ancora non sapevo che quella sarebbe stata solo la prima fotografia di una lunga serie del nostro ultimo anno passato insieme.
Finalmente ero giunta in ospedale. Eravamo lì senza nessuna notizia, in attesa dei medici. Tra uno scherzo e un pisolino di Mari, arriva il pranzo. In quel preciso momento mi accorgo che aveva poca forza e che quel cucchiaio di plastica tra le sue dita sembrava pesare come un macigno. Non capendo il motivo, scattai una seconda fotografia.
Dopo i primi giorni passati a Reggio, siamo arrivate a Verona e nella città scaligera, io ho continuato a scattare. Prima dell’operazione, dopo l’operazione, la notte accanto a lei, quando ci annoiavamo, il giorno appena mi svegliavo, il pomeriggio in attesa di entrare in ospedale. Ancora durante la chemio, la radio e durante gli infiniti pomeriggi passati nel convitto delle suore.
Io e Mari non avevamo mai smesso di scattare. Lei fotografava me, io lei. Inconsapevolmente era nato un progetto. Volevamo documentare la malattia, volevamo spiegare cosa significasse avere un gliobliostama IV grado e cosa volessero dire chemio e radio. Lo facevamo per noi ed era una continua e dolorosa scoperta che lei viveva in prima persona, io osservandola, parlandoci e vedendo ogni suo cedimento.
Mia sorella era una cazzuta e nonostante la malattia ha continuato a svolgere la sua vita: studiava per diventare notaio, si è laureata, andava in palestra, gioiva, rideva e – a parte l’esser passate alla birra analcolica – cercava di svolgere una vita il più normale possibile.
Non sapevamo quale sarebbe stata l’ultima fotografia, né quando questo sarebbe avvenuto, anche se a un certo punto dovetti fare i conti con la realtà e scattare l’immagine che nessuno vorrebbe conservare nella propria memoria. Io lo feci perché ne avevo bisogno.
Inconsapevolmente, dopo la morte di Mari, ho continuato a scattare ossessivamente, non la vita nel suo scorrere – essendo diventata sostanzialmente un ghiro – ma la mia attenzione era andata verso un oggetto, che ogni giorno stava lì a ricordarmi che lei non c’era più: il manifesto mortuario.
Era affisso sulla cassettina dell’elettricità nella strada parallela al mio portone di casa. Nel tempo quel manifesto ha iniziato a svanire, a logorarsi, fino a quando qualcuno non lo ha strappato. Evidente non ero l’unica persona a cui quel manifesto faceva male, solo dopo scoprì essere stata mia nonna.
Innumerevoli giorni (mesi) di divano dopo, torno all’università e durante quel maledetto viaggio in treno succede l’irreparabile: rubano la mia valigia con la memoria esterna e il computer. Non avevo più nulla se non rari file che avevo spostato su dropbox.
Eccoci giunti al momento in cui ho ufficialmente posato la mia reflex nella sua custodia e nascosta nell’angolo più buio del mio armadio.
Qualche tempo dopo, accade di nuovo qualcosa e senza che io me ne rendessi conto incomincio un nuovo progetto con l’’instantanea appena regalatami da Cristiano.
Da quel giorno ho iniziato a documentare la mia vita con l’intenzione di ricordare giorno per giorno gli avvenimenti, associandoli a un testo, affinché mi ricordassero chi ero e cosa stavo diventando. Era nato il progetto 365, che poi è durato tre anni della mia vita e a cui ho posto fine quest’anno: il 31 dicembre 2019.
La perdita della persona amata – una sorella, una figlia, un marito o una moglie – è qualcosa che non si riesce a comprendere e che mai dovrebbe essere esperito.
Ci si sente a metà, come se qualcuno ti avesse portato via una parte di cuore; ma ci si deve rialzare. Io grazie a mia madre – donna coraggiosa, mia fonte d’ispirazione e mio modello d’amore -, alla mia famiglia e alle molte persone che mi sono state vicine, ci sono riuscita. Non è stato semplice e qualche volte ricasco nel mio pessimismo universale, ma non oggi, perché la mia voglia di prendere a morsi questa vita è tanta perché, dopo sei anni e innumerevoli peripezie, ho imparato qualcosina in più dalla vita.
Ora tutto sta mutando e se ho una paura matta dei prossimi mesi, non vedo l’ora di iniziare a viverli. Non so se sto prendendo le decisioni giuste, non so quale sia la decisione giusta, ma è giusto seguire ciò che al momento ci rende felici. A rendermi felice è poter scrivere di fotografia al momento, così come alcune persone e sento che il mio volermi bene, fa bene anche a chi mi sta intorno perché provano le mie emozioni, così come vivono le mie gastriti.
Wadsworth Longfellow scrisse: «le feste più sacre sono quelle che celebriamo in silenzio e solitudine. Sono gli anniversari segreti del cuore, quando il fiume dei sentimenti rompe gli argini».
Oggi certamente non è una festa, ma una ricorrenza, quella dell’ultimo bacio con mia sorella, e ho voluto tramutare questo “anniversario del cuore”, in una riflessione, cercando di rompere quelle barriere mentali che mi costringono all’immobilità, alla paura e al dolore asfissiante che provo dentro. Perché si prova purtroppo e oggi, come ogni anno, sento di volerlo condividere con chi amo.
Condividiamo questo dolore con mia madre e, con il tempo, ho scoperto con molte altre persone, che la loro esperienza mi hanno raccontato e da cui sono uscita fortificata. Quello che ho capito è che guardare il dolore in faccia fa male, ma dobbiamo sempre ricordare di aver ereditato un miracoloso destino che, aperte parentesi avrebbe potuto non essere così bastardo, ma essendolo stato, non ci deve far dimenticare la grinta, la passione, la forza che abbiamo compreso di avere, seppur celata in qualche meandro del nostro cuore.
Mari ha amato la vita più di ogni altra cosa, celebrandola con la massima intensità in ogni suo giorno di vita, io sono sempre stata un pò “bradipo”, ma ciò non toglie che devo dire grazie, perché ho amato e amo, ho anche perso tanto e ho sofferto, ma poi mi sono sempre rialzata.
È difficile venire a patti con se stessi e, alcune volte, si pensa di non aver meritato questa vita, ma non è vero. Ultimamente mi hanno detto «devi vivere nelle infinite possibilità», non pensare ai “non” e ai “ma”. Pensa che ci riuscirai, provaci e ti sorprenderai. Solo così si riuscirà a mutare il proprio punto di vista sul mondo.
In un articolo letto pochi giorni fa, la psicologa Marie Laure Colonna, definiva i fratelli come un solo essere umano diviso a metà. Un’identità molteplice che si manifesta attraverso il più nobile dei sentimenti: l’amore che non svanirà mai.
Dopo sei anni, posso dire di aver imparato a gestire alcuni pensieri, ma la voglia di poter parlare con lei, di raccontarle le mie giornate e condividere la mia vita con lei non è mutata. Ho piuttosto imparato a convivere con il ricordo e vivere del suo amore, come di quello che mi circonda. Come disse, Susan Sontag, nel libro Davanti al dolore degli altri, «è la passività che ottunde i sentimenti», sta a noi rinnovarli con il dono dell’emozione, della condivisione e con la voglia di star bene “qui e ora”.
Come ogni anno, stasera con un negroni brinderò a te mia dolce sister. Sempre nei mie pensieri e nella mia vita.
Testo e fotografie di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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