U’ Signuri Vi spezzau u’ cori…! Una frase detta a mia madre con spontaneità e immediatezza da una signora nella campagna gioiosana.
Una tipica donna calabrese vestita con una maglia nera di cotone, la gonna fino ai polpacci muscolosi, dalle braccia possenti e con il suo immancabile faddale [grembiule] sporco di farina e sempre ben saldo alla vita.
Era una mattina qualunque, di un non meno precisato giorno di novembre e, non so per quale motivo, questa frase mi è risuonata nella mente per tanto tempo dopo che la signora l’ha pronunciata. Probabilmente perché sono state parole dette con genuinità da chi la fede la sente ancora viva nel proprio cuore, la cui religiosità atavica si denota dalla voce gracchiante di chi ha pronunciato molti rosari, così come dai molti particolari sparsi nella piccola casupola nel bel mezzo della campagna.
Con grande semplicità la signora dal vestito nero è riuscita a esprimere un concetto di dolore immenso in modo altamente figurativo; subito ho immaginato un cuore posto su una superficie di splendente candore con i contorni ben definiti ma ormai disgregato in molti minuscoli pezzi. Un cuore i cui frammenti sarebbe stato impossibile unire come diversamente accade con un soprammobile.
Qualche giorno dopo l’accaduto ho visto un’immagine della serie Shattered Flowers realizzata dal fotografo Jon Shireman, il quale utilizzando dell’azoto liquido ha congelato dei fiori per poi frantumarli. Margherite, iris e papaveri che, seppur disintegrati, sono ancora ben riconoscibili per la loro sagoma e per i loro colori, proprio come fossero oggetti di porcellana purissima.
Il fotografo ha ribaltato la concezione stessa di ciò che riteniamo bello, infatti quel fiore ha conservato la sua bellezza, una bellezza diversa nata dal dolore e dalla distruzione.
Questo mi ha fatto riflettere sul dolore che le persone vivono nel proprio intimo, un sentimento che è sempre difficile descrivere e spiegare perché, ognuno a suo modo, lo vive in segreto con emozioni così particolari che comunicarle nella loro integrità sarebbe impossibile.
Credo esiste una bellezza nel dolore e la storia insegna, così come le biografie degli artisti; sappiamo bene che il dolore è motivo di riflessione e quindi motivo di ispirazione. Molte persone affermano di creare le loro opere quando accade qualcosa di particolarmente sofferente nella propria vita e solitamente le opere dei più celebri artisti non raccontano la Gioia di Vivere ma l’Urlo dell’anima.
Saturno domina la loro nascita e si sà “Saturno è il pianeta dei malinconici, e […] anche quando non è nominata, l’antica divinità incombe sinistra”.
Il dolore è importante per la vita di ognuno di noi perché insegna che la vita è altro rispetto alla quotidianità e alla routine giornaliera; in qualche modo cambia il proprio modo di vivere e di rapportarti agli altri perché l’uomo pensieroso tende a rinchiudersi nei propri pensieri e si ritrova a fare i conti con la propria interiorità.
Marie von Ebner-Eschenbach ha scritto “il dolore è il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime”, queste crescono, si temprano e si ricoprono di cicatrici che celano un dolore intenso.
Giornalmente molte persone soffrono e basta passare pochi giorni in ospedale per ricordare tutto quel dolore che si è cercato di dimenticare nel tempo. L’attesa estenuante di un verdetto, l’incapacità di decidere sul da farsi, il dolore di una malattia, l’impossibilità di fare qualcosa di concreto, l’angoscia del futuro che può cambiare la tua vita in poche ore, se non minuti.
Non è detto che tutti prima o poi debbano fare i conti con le fratture emotive del cuore e con le sue conseguenze, ma purtroppo c’e chi DEVE, senza se e senza ma, affrontare la realtà.
Alcune volte cerchiamo di prepararci agli avvenimenti futuri, a quello che potrebbe accadere, ma la verità è che si arriva quasi sempre impreparati davanti al dolore.
Il dolore può essere celato alle persone che non avranno mai il tempo di fermarsi a guardare lo sguardo altrui , ma un giorno quella corazza verrà riconosciuta da un proprio simile e le sensazioni che erano state addomesticate non potranno far altro che riemerge con forza nel presente diventando lo specchio in cui ri-conoscerci.
Ancora una volta l’arte ci dice qualcosa in più sulla nostra vita: nella performance The Artist is present, tenutasi al MoMA di New York nel 2010, Marina Abramovic è rimasta seduta 7 ore al giorno per tre mesi guardando negli occhi chiunque si fosse seduto davanti a lei.
L’artista chiude gli occhi, li riapre e davanti a lei un nuovo sguardo, una nuova vita, nuovi pensieri, nuovi dolori da condividere e da scrutare.
Un tempo che giornalmente dovremmo donarci per scrutare noi stessi e gli altri. Messi di fronte al nostro stesso dolore la corazza cade e le nostre paure si palesano. Sentimenti lontani, passati e repressi riemergono per donarci nuove sensazioni così come è successo alla Abramovic nel momento in cui ha riaperto gli occhi e davanti a lei c’era Ulay, suo celebre compagno d’arte e di vita.
L’incontro con Ulay si svolge con un climax lento e delicato che inizia con un primo sguardo tra i due: alla felicità del primo istante, segue uno sguardo meditativo e subito gli occhi si inumidiscono, probabilmente perché la mente ha ormai varcato la soglia del ricordo e della consapevolezza, ed è qui che il pianto emerge, seguito da un sospiro profondo e da un forte trasporto emotivo che porta l’artista a trasgredire le regole e tendere le mani verso Ulay. Lui sorride e dopo pochi istanti lei si ritrae teneramente, ma non prima di aver accennato un riavvicinamento.
The show must go on: l’artista asciugandosi le lacrime cerca di ritrovare la concentrazione.
Si siede un’altra persona davanti a lei, ma questa volta è più difficile riaprire gli occhi perché le sensazioni donategli da quel momento sono state forti, ed ecco che l’artista apre e chiudi gli occhi per pochi secondi, fino a quanto, con un ultimo sospiro, li riapre definitivamente.
Tutti noi abbiamo bisogno dello sguardo altrui, di uno sguardo che senza pretendere spiegazioni riesca a capire l’altro perché molto spesso non è facile comunicare la propria persona e le proprie emozioni.
Il conforto può arrivare da una signora sconosciuta nella campagna gioiosana, da un amico comprensivo o da chiunque sia disposto a fermarsi per un attimo a guardarti.
Un giorno, neanche tanto lontano, un amico mi ha detto: “ […] se piangi è perché hai tempo per poterlo fare, ma nel momento di tirare su le maniche sei una roccia, fai un sospiro profondo e non mollare, non sentirti sola, hai tutti noi dalla tua parte […]”.
Ogni volta è sempre lo stesso magone che annebbia la vista e ti chiedi per quanto tempo sarà così? Sarà per sempre? Ci sarà mai fine alla finte partenze? Io voglio credere di si, perché nulla avrebbe senso e credo che queste domande purtroppo debbano rimanere senza una risposta.
Non sono sicura che dietro le porte del Paradiso le lacrime non scenderanno più o almeno non lo sapremo fino a quando questo non accadrà, per ora ciò che rimane è sperare che il Tempo sia clemente e che per una volta la ruota giri perché “il tempo può abbatterti; il tempo può piegarti le ginocchia; Il tempo può spezzarti il cuore, e farti implorare pietà” [Eric Clapton, Tears in Heaven] ma, sempre citando le meravigliose parole che il mio amico mi ha donato, “bisogna andare avanti perché c’e un nuovo giorno e altri respiri da fare”.
Testo ©Claudia Stritof
2 Comments
Grazie mille Gemma per essere passata a leggere i miei testi. “Nemico amico” lo definirei. Lui scorre, noi dovremmo scegliere la qualità.
Che bello leggere di “campagna gioiosana”.
Complimenti Claudia bellissimo testo e belle immagini.
“Il tempo ci divora”….. è l’unico vero nostro nemico.